Le Antiche Insegne delle Fornaci di Murano, criteri e metodologia di una ricostruzione grafica congetturale

 

“…Adì 27 marzo del 47, die dar misser
 Zuan Domenego Serena, verier a le 3 croci in
Muran sopra dito, per un quadro de un presepio…”
.(1)

Ultimato il precedente lavoro sugli stemmi appartenuti alle famiglie di Murano, dedicato a quelli presenti nelle medaglie coniate annualmente e denominate Oselle,(2) mi ero prefisso di continuare la ricerca sui blasoni delle dinastie isolane. Murano, come risaputo, fu l’unica Comunità a dividere con Venezia il privilegio di emettere le famose medaglie – monete. La piccola isola, godendo di tale prerogativa, permise ai propri cittadini eletti a pubbliche cariche, Camerlenghi e Deputati, di coniare e di notificare il loro scudo familiare.

Partendo dal presupposto che ognuna delle famiglie ascritte al Libro d’Oro di Murano,(3) non solo quelle tramandateci dalle Oselle, poteva fregiarsi di un proprio stemma, ho continuato a cercare tra i documenti più vari eventuali rappresentazioni di altre armi appartenenti alle “nobili” famiglie isolane. Già: “Nobili”. E’ un termine appropriato? In una sua relazione, l’amico Silvano Tagliapietra citò una massima ottocentesca attribuita a Schuermans che ritengo anch’io meritevole di menzione: A Venezia, si è nobili perché vetrai. In Francia ed in Belgio si è nobili anche se vetrai. A Altare, si è vetrai perché nobili.(4)

Non sto qui a discutere se quella di Murano fosse stata nobiltà a tutti gli effetti rispondente in toto ai parametri e ai canoni richiesti oggi ed un tempo per poterla definire tale. Secondo il mio parere troppe cose inesatte sono state tramandate, anche per questioni legate al mero interesse e perciò lascio la questione ad altri.(5) Posso solo constatare che in monete aventi teorico corso legale e coniate con il crisma dell’ufficialità, gli stemmi isolani (i cui possessori erano iscritti ad un Libro d’Oro e quindi in apparenza facenti parte di una privilegiata élite) si trovavano accanto a quelli del Doge e del Nobil Homo Podestà assumendo, a mio parere, riconoscimento, dignità e valore agli occhi dei fieri muranesi. Dignità e valore riconosciuti anche all’estero, dando credito ad un aneddoto raccontatoci dall’abate Zanetti nella sua citatissima Guida di Murano: narrando alcuni fatti salienti della vita di Giuseppe Moratto (muranese, canonico e studioso di medicina del XVIII secolo), il prelato testimonia di una ottima diagnosi e relativa cura effettuate dal Moratto stesso, che portavano alla guarigione da una misteriosa malattia nientemeno che la regina di Polonia. Il re suo consorte “…in compenso voleva offrirgli un canonicato in Cracovia, ma dispiacevagli non essere il Moratto di schiatta nobile. Il Moratto però, sentendo questo, si faceva venire da Murano un’osella portante il nome de’ suoi antenati, e fu insignito di quell’onore…”.(6)

Poter battere moneta con il simbolo della propria isola e della propria famiglia era solo uno dei privilegi di cui il cittadino muranese riteneva di godere. Tali privilegi venivano anche riconosciuti e ribaditi in atti notarili ed ufficiali, dove la condizione di iscritto nel Libro d’Oro sembrava veramente importante agli occhi degli isolani: “Don Agostino Marinetti q. Bernardo patritio di questo loco” recita, ad esempio, un documento del 1709 redatto pomposamente dal Cancelier Domenico Ziminian.(7) Lo stesso Cancelier Ziminian in un’ossequiosa fede, da lui redatta nel 1708, così attesta, riferendosi allo status dicittadino del muranese Angelo Cimegotto: “In virtù della quale sua Cittadinanza è capace di tutte le Prerogative, Gratie, Beneficij, Privileggi, Indulti, Consigli, Regalie, e Donni, Honoranze, Cariche, Honori, et altro solito ad essere dispensati a tali soggetti Muranesi…”.(8)

Quindi, nel microcosmo rappresentato dall’isola di Murano, si era creato un meccanismo secondo il quale la conoscenza delle preziose lavorazioni vetrarie, trasmissibili solo in circuito chiuso, diveniva fonte d’onori e riconoscimenti da parte della Serenissima che, nel contempo, gravava il tutto di vincoli atti a tutelare la segretezza e l’esclusività delle tecniche per preservarne il monopolio. Tali vincoli, spesso, rendevano i confini dell’isola come gli unici conosciuti dal cittadinoverier. Anche la gestione delle pubbliche cariche volte ad amministrare questo mondo ristretto era circoscritta alle famiglie notificate dal Libro d’Oro. Tali peculiarità fanno parzialmente comprendere l’ostentata convinzione degli antichi cittadini muranesi, più o meno giustificata dalla realtà dei fatti, di appartenere ad una casta privilegiata, al punto massimo che il microcosmo isolano potesse offrire. Convinzione che poteva divenire generatrice, nelle teste più calde, d’atteggiamenti talvolta “sopra le righe”: una litigiosità spesso eccessiva ed acuita, secondo alcuni studiosi e testimonianze, dal libero possesso d’armi bianche,(9) rancori personali,(10) spiate reciproche agli organi della Republica e comportamenti che, in qualche caso, tradivano superbia ed arroganza anche nei confronti dell’autorità costituita della Dominante.

Ecco, a tale proposito, come Gio. Batta Cavallini, fante del Magistrato ecc.mo dei Censori, riferisce, in un verbale redatto il giorno 8 aprile del 1785, di un alterco avuto con il patron de fornace Stefano Motta: “Quando il fattore intese che n. venti lastre voglio asportare [per esaminarle] mi disse che tiene ordine dal suo padrone che è a tavola di non lasciare che ne prenda se non due e non più […] sentitelo così andai alla scala sempre già con la baretta(11) in testa [quindi ben riconoscibile come pubblico ufficiale], battej [] io gli dissi [ad una serva] che vi è il fante del Magistrato Eccellentissimo dei Censori che una sola parola vuol dirgli […] e finalmente viene il sopracitato Stefano paron delle fornaci e sua madre […] e cominciò unito a sua madre a dirmi una quantità di insolenze, fra le quali che è una baronata [una bricconata] che è un arbitrio che mi prendo che vogliamo portargli via la sua Robba…”.(12)
Uno scarso rispetto per il povero Cavallini e per la sua baretta in testa, quindi. Nella sua Histoire de ma vie, Giacomo Casanova racconta di alcune sue paure e, indirettamente, descrive lo status del cittadino muranese quando, per ragioni amorose, deve recarsi di notte nell’isola del vetro: “...Avevo in tasca almeno trecento filippi che avevo vinto nel ridotto e una borsa piena di monete d’oro, e perciò temevo anche i ladri muranesi, pericolosissimi malandrini e assassini che abusano dei molti privilegi concessi loro per ragioni politiche dal governo...”.(13) Le acque della laguna circondavano come il fossato del castello la patria dei muranesi e, nel contempo, la delimitavano idealmente come le Colonne d’Ercole facevano con l’antico mondo conosciuto. In questa patria, in questo ambito angusto, i cittadini verieri erano, nel contempo, nobili paròni co el stemma e prigionieri.

"Nobili paròni co el proprio stemma", dicevo, ma quale? Certo, se Murano non avesse avuto la prerogativa di coniare Oselle, non avrei potuto disporre di una così importante fonte documentaria e le armi sicuramente riconducibili alle famiglie isolane, in base ad altre testimonianze, si sarebbero ridotte ad una mezza dozzina. Immodestamente, avevo sperato che il primo lavoro svolto, una volta divulgato, avesse potuto ricoprire il ruolo di catalizzatore:una sorta di strumento per conoscere persone che mi avrebbero indicato o fatto reperire i documenti, che pensavo esistessero, sugli “stemmi mancanti”. Purtroppo, nonostante le aspettative e l’impegno profuso, non sono arrivati risultati sostanzialmente apprezzabili: ho potuto arricchire di poche novità le armi già conosciute.

Preso atto di ciò, forzatamente, mi sono posto una questione: e se gli altri stemmi vanamente cercati in realtà non fossero mai esistiti “fisicamente”? Se, in altre parole, molti dei muranesi facenti parte del Libro d’Oro, ma esclusi da pubbliche cariche, mancando la motivazione di dover materialmente coniare la propria arma accanto a quelle del Doge nelle Oselle, non si fossero mai posto effettivamente il problema di mostrare o, addirittura, concepire il proprio stemma pur, in teoria, avendo il diritto di possederne uno? Sembrava proprio che, mancando questa ghiotta occasione di “rappresentanza”, molte armi familiari isolane non avessero avuto altro modo di manifestarsi, quindi ogni ulteriore mio tentativo di ricerca era diventato inutile: dovevo mestamente dedicarmi alla cura del giardino di casa ed alla constatazione che le stagioni non sono più le stesse.
Mi sono convinto, invece, che avrei dovuto variare atteggiamento ed indirizzare diversamente le mie ricerche… anche perché non avevo mai piantato un geranio in vita mia.

Ho fatto un passo indietro: osservando gli stemmi muranesi di cui ero a conoscenza, ho constatato che, mancando imprese “guerresche” o di altro genere da cui trarre ispirazione per concepire i blasoni, essi sembravano sottostare a due principali “procedimenti creativi”. Il primo era quello che portava alla cosiddetta “arma parlante” (lo stemma concepito alludeva con immagini al nome della famiglia che lo possedeva: si pensi ai due uomini barbuti dei Barbini o al ravanello dell’omonima dinastia).
Il secondo metodo, poiché come visto in molti casi la famiglia era anche proprietaria di una fornace, faceva coincidere il simbolo della vetreria posseduta con l’arma, ottenendo il risultato di trasformare, sostanzialmente, quella che era insegna(14) e/o marchio di bottega in scudo araldico a tutti gli effetti o viceversa.(15)
Per avvalorare la teoria esposta in precedenza, si pensi ai Piave con segno commerciale e stemma raffiguranti S. Andrea, ai Motta con I tre Monti raffigurati nell’Osella e nel segnal della fornace o ancora ai Marceretto con il simbolo del Mondo effigiato sia nell’arma che nell’insegna vetraria (una sfera cimata da una croce). Sovente, come riscontrabile osservando gli stemmi coniati nelle Oselle, i due metodi “creativi” descritti (arma – parlante e arma – insegna) erano coincidenti; i Serena, ad esempio, avevano in comune stemma e simbolo della vetreria, entrambi parlanti: una Sirena bifida.
L’equazione Stemma = Insegna/marchio della vetreria, quando esistente, sembra riguardare i simboli più antichi delle fornaci: quelli che vanno dalla metà del XV secolo fino alla fine del XVII. In questo periodo sembrano coesistere, nei segni e nelle armi, gli stessi soggetti: Draghi, Fortune, Delfini, Fenici, Sirene, Globi, Santi, Ruote...

Successivamente, come si vedrà, le nuove vetrerie adotteranno nomi e simboli più complessi, meno “araldici”, che non andranno a modificare gli stemmi già esistenti e radicati o a influenzarne eventualmente altri di nuova concezione.
Quindi, per dare parziale riscontro alla ricerca sulle armi isolane che ritenevo mancanti, dovevo accontentarmi di un “surrogato”. Dovevo cioè risalire ai segni, ai simboli delle vetrerie muranesi esistenti al tempo della Repubblica Serenissima, ipotizzando che molti di essi, i più antichi quantomeno, sarebbero potuti divenire stemmi familiari, qualora non lo fossero già stati. Fin dall’antichità, le insegne servirono all’uomo per contrassegnare esercizi commerciali, botteghe, taverne, ostelli. Ne fecero uso gli antichi Egizi, i Fenici, i Greci. L’insegna più antica arrivata fino ai nostri giorni, come ci testimonia Eberhard Hölscher in un suo prezioso lavoro,(16) sembra essere quella di un “interprete di sogni” egiziano, vissuto in un periodo collocabile nel 300 a.C. In tale insegna, di pietra calcarea, è raffigurato il toro Apis, a cui gli egiziani attribuivano facoltà divinatorie,(17) posto innanzi a quello che sembra essere un altare. L’animale dipinto è situato sotto un’iscrizione risalente all’epoca dei Tolomei, che inizia con: ”Io interpreto i sogni sotto l’influsso divino” Il ruolo dell’antica insegna sembra doversi paragonare a quello assunto dall’odierna pubblicità, dalla réclame.
Réclamer, parola francese che deriva dal latino reclāmare, chiamare a gran voce. Nell’antica Grecia la gran parte delle attività commerciali e di vendita veniva svolta all’aperto, nei mercati, dove gli articoli venivano notificati “a gran voce”. Naturalmente, non erano escluse eccezioni: anche nel mondo greco le insegne potevano contraddistinguere attività propriamente “statiche”, quali taverne ed ostelli.

Nell’antica Atene, Socrate era solito bere vino di Cipro, accompagnato dai facchini portuali del Pireo e da alcune cortigiane, in una locanda recante un’insegna allegorica.(18) Non è da escludere che l’effigie menzionata fosse una pigna, posta spesso all’entrata di locande e taverne perchè simbolo caro al dio Dioniso. Durante l’epoca della dominazione romana si fece largo uso di īnsignĭa: il mondo posto sotto la pax romana si muoveva e si espandeva grazie anche al poderoso e sicuro sistema viario imperiale e, con esso, si intensificavano i commerci, i traffici e l’uso della relativa pubblicità. Da scavi archeologici sono emerse immagini affrescate che contrassegnavano osterie, forni, stazioni di posta. A Pompei sono emerse insegne di negozianti di otri, di fonditori d’argento, di tintori di tessuti…

Nell’87 A. C., Marco Tullio Cicerone testimonia l’esistenza di una insegna di taverna in cuoio avente come soggetto un barbaro, probabile bottino di guerra.(19) Tale simbolo commerciale sembra essere una sorta di precursore di molti successivi: in nord–Europa esistono tuttora esercizi aventi l’insegna Al Selvaggio.(20) Con il tramonto dell’impero romano, l’uso dell’insegna è sembrato perdersi nell’oblio. Il XII secolo vide riapparire in Europa il costume di contrassegnare con un simbolo la propria attività commerciale, grazie anche alla rinascita degli scambi economici. A causa dell’analfabetismo imperante, le semplici immagini erano utilissime al viandante per stabilire dove si poteva trovare una bottega, una taverna o un qualunque esercizio: una mano gigantesca indicava il guantaio, una scarpa dipinta o scolpita il calzolaio. In un antica insegna cremonese di osteria,(21) eseguita anch’essa con la tecnica dell’affresco, sono rappresentati due avventori che conversano amabilmente: dalle labbra di uno dei due, come in un moderno fumetto, escono alcune parole, mentre la mano sta portando il bicchiere alla bocca.
Molto frequenti erano le insegne rappresentanti la figura di un uomo con le vene zampillanti sangue: simbolo dell’arte del salasso, frequentemente esercitata da chirurghi e barbieri. Nei grandi centri abitati, i segnali non solo rendevano riconoscibili le diverse attività, ma distinguevano e diversificavano tra loro anche quelle facenti parte del medesimo settore merceologico: in una strada poteva venirsi a creare, ad esempio, la coesistenza di due locande chiamate una Al Leone, l’altra Ai Tre Re.

Il simbolo commerciale stava assumendo un ruolo ben preciso, sempre più importante. A tale proposito, mi sembra utile citare un caso che Bartolo da Sassoferrato, famoso giureconsulto trecentesco, ha posto nel suo “Tractatus De Insignis et Armis”: “Pone quendam fabrum esse doctissimum, qui in gladijs et alijs operibus suis facit certa signa…”.(22) Nel caso in questione, si suppone l’esistenza di un fabbro veramente esperto nel proprio campo, che rendesse riconoscibili, grazie ad alcuni simboli, le spade e gli altri manufatti di sua produzione, riuscendo così a commercializzare la merce prodotta più facilmente. L’apposizione del suo specifico marchio,connotando precisamente le opere della bottega, doveva rendere tale simbolo esclusivo, di sola appartenenza al fabbro in questione. Bartolo è arrivato al punto di ritenere utile e giusta l’eventualità di vietare ad altri l’uso di siffatto segno allo scopo di tutelare l’acquirente che, in caso contrario, sarebbe stato tratto in inganno scambiando l’opera di uno per quella di un altro. Ad un dato simbolo, quindi, doveva corrispondere una, e solo una, determinata bottega.
Il ritrovato costume europeo di contrassegnare con un emblema la propria attività, tuttavia, non era adottato ovunque: leggendo il dialogo tratto da un’opera letteraria spagnola del Cinquecento (conversazione citata da Giacomo Moro in un suo interessante lavoro),(23) si deduce che le insegne non erano comunemente usate in terra iberica.

Uno dei personaggi del colloquio, Pedro, sembra gradire alquanto il sistema di contrassegnare con simboli gli esercizi commerciali. Egli afferma: “come in tutte le grandi città di Francia ed Italia, quelli che hanno botteghe, di qualunque tipo, mettono alla porta una banderuola con un’insegna per essere individuati, altrimenti sarebbe come cercare un ago in un pagliaio,(24) così basta che uno dica: Signore, io vivo nella tal strada, all’insegna del Cigno, in quella del Leone, in quella del Cavallo, e così via…”, mentre l’interlocutore di Pedro, Juan, sembra dolersi del fatto che tale usanza così utile non sia adottata anche in Spagna. Riflettendo sulle parole di Pedro, si nota che le insegne, le botteghe, le attività più importanti contraddistinguevano palazzi e strade: ne sono esempi tuttora tangibili Via de’ Calzaioli a Firenze o Via del Coltellinaio a Siena, cui fanno da contraltare il Ramo dei Calegheri, la Calle dei Fabbri, la Salizada degli Spechieri o la Corte del Leon Bianco (dal nome di un’antica locanda) che si trovano a Venezia.(25)

I simboli adottati per le imprese commerciali e manifatturiere potevano avere radici di natura “pagana ” (Il Sole, La Luna, La Pigna, La Fenice…), cristiana (All’Angelo, Al Calice, Alle tre Croci, Ai tre Re, Al Gesù…), o avere una matrice allegorica che si può definire “virtuosa” e che è sembrata crescere con l’avvento dell’Illuminismo (La Carità Perfetta, La Sofferenza Coronata, La Speranza, L’Umiltà…). Le insegne, che localizzavano la bottega, potevano essere scolpite su pietra, intagliate su legno, effigiate su finestre e persiane, dipinte su ferro tenero ed appese a bracci sporgenti. Proprio questo ultimo tipo di insegna sembra essere quello dipinto da Vittore Carpaccio nel suo “La guarigione di un ossesso”; il quadro, eseguito alla fine del XV secolo ed esposto nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia, presenta, tra le case situate sulla riva sinistra del Canal Grande, due insegne, una delle quali attribuibile quasi sicuramente ad una locanda, vista la presenza di quella che sembra essere una ghirlanda circondante uno Storione Bianco.(26)

Il sistema di “sospensione” dell’insegna fu, probabilmente, causa di alcuni divieti e precauzioni per la salvaguardia dei passanti. Più specificatamente: Girolamo Dian narra di una storia veneziana secondo la quale, sotto la dominazione austriaca, era vigente l’imposizione di ritirare l’insegna della spezieria Alla colonna e mezza, perché “serviva di ostacolo al passaggio delle baionette delle truppe che andavano all’esercitazione in Campo di Marte…”.(27) Anche Joseph Fouché (ligio statista francese, membro della Convenzione Nazionale e Ministro di polizia che servì in diverse mansioni, ma sempre con lo stesso zelo e lealtà, Rivoluzione, Napoleone e Restaurazione) si preoccupava della salute dei comuni passanti, le cui teste venivano minacciate dalle insegne sospese su stradine e viuzze. In un decreto del suo periodo repubblicano,(28) egli stabiliva che tutte le insegne, sospese e non, il cui soggetto fosse stato riconducibile a tematiche “Reali”, “Nobiliari – Feudali” o “Superstiziose”, dovevano essere sostituite con altre direttamente dipinte su muro e, soprattutto, aventi soggetti “repubblicani”. Due piccioni con una fava: prevenzione sanitaria e censura politica.

Molti pittori famosi applicarono la loro arte alla creazione di insegne. Hans Holbein il Giovane ne eseguì una per un maestro di scuola, nel 1516 (Basilea, Öffentliche Kunstammlung).(29) L’inglese William Hogarth dipinse su mogano, nel 1725 circa, un’insegna a due facce per un lastricatore di strade.(30) Quasi contemporaneamente ad Hogarth, il francese Jean-Antoine Watteau eseguì un capolavoro: l’insegna di Gersaint, olio su tela, situata attualmente nel Castello berlinese di Charlottenburg e rappresentante l’interno di un negozio di quadri.(31) A Venezia fu probabile opera del celebre Brustolon l’antica insegna scolpita della spezieria All’Ercole.(32) A mio parere, si possono definire insegne anche i due grandi pannelli che Toulouse – Lautrec eseguì nel 1895 e che venivano sistemati ai lati della porta d’ingresso esterna del baraccone parigino della ballerina Louise Weber, in arte La Goulue.(33)

La figura simbolo dell’esercizio poteva anche divenire un marchio che veniva posto sulla merce. Nel settore vetrario, ad esempio, era consuetudine apporre il proprio segno distintivo su alcuni prodotti: “Il lavoro che le fornaci da Smalti e Paste in Pan devono aver comune colle Fornaci da canna è il far la Stellaria, e i propri sono i Smalti che servono per smaltar l’Oro e l’Argento et altri mettali che, figurati in Pan, devono esser marcati col Bollo del loro Fabricatore…”.(34) I Miotti trasformarono uno dei loro segni commerciali, una scimmietta, in un decoro dipinto a smalti policromi su una piccola anfora in vetro lattimo eseguita nel XVIII secolo, tuttora visibile presso il Museo Vetrario di Murano. Il marchio poteva anche contraddistinguere le casse d’imballo dei manufatti, rendendo riconoscibile la specifica provenienza delle merci.(35)
Con l’introduzione della numerazione civica, nel XVIII secolo, e l’avvento di spazi espositivi merceologici nuovi, quali le vetrine, sembrò diradarsi la consuetudine di segnalare i propri negozi con targhe ed insegne aventi simboli dipinti, anche se alcune attività, vetrerie comprese, ne proseguirono l’uso.
In epoca moderna, la crescente alfabetizzazione popolare e la ricerca di sintesi ed immediatezza hanno fatto diminuire sensibilmente l’uso di immagini e di soggetti elaborati per contraddistinguere le attività commerciali. I simboli sono divenuti, via via, sempre più essenziali, stilizzati, anonimi, neutrali e, nella maggioranza dei casi, si preferisce l’elaborazione grafica del nome costituente il marchio dell’azienda (molto spesso il cognome del titolare), in particolare quando il prodotto viene esportato.

Questo al fine di evitare, per quanto possibile, che la merce faccia trasparire connotazioni specifiche riconducibili a tradizioni locali o religiose e per renderla accettabile in ogni paese e da ogni cultura. Un capitolo a parte, poi, meriterebbero i cosiddetti logotipi e tipogrammi, estreme fusioni tra nome ed immagine grafica. Dopo il breve (spero) excursus storico, ritorniamo all’oggetto del contendere: gli artistici, roboanti segni commerciali del passato. In molti casi, come visto, i simboli illustrati nelle antiche insegne e nei marchi erano motivi e figure allegoriche che corrispondevano ad un preciso linguaggio, una sorta di codice, una iconografia oramai distante e, per molti di noi, perduta; avrei dovuto, quindi, cercare di comprendere il più possibile quel metodo di proiezione per eseguire un lavoro grafico di ricostruzione congetturale che fosse stato plausibile dal punto di vista filologico.(36) Parlo di ricostruzione congetturale perché nemmeno stavolta ho trovato materialmente un numero elevato di marchi od insegne appartenenti a fornaci, nonostante la cospicua presenza nel passato. Il museo vetrario di Murano custodisce le uniche insegne che ho potuto visionare. Due di esse sono scolpite in pietra, altre due appaiono di metallo dipinto.(37) Sempre nella stessa sede, ho potuto esaminare alcune piastrine di smalto vitreo con iscrizioni e simboli di fornaci e riproduzioni xilografiche di marchi di vetrerie.(38)
Per tutti gli altri simboli che ho cercato di illustrare nella presente ricerca, ho dovuto compiere un lavoro di induzione che, partendo dal nome della vetreria, ha tentato di risalire alle immagini che uomini cronologicamente molto distanti avevano concepito per rappresentare un’idea, una speranza, un voto di devozione, un mito o, semplicemente, un buon auspicio.

Si parla per la prima volta di marchio di fabbrica vetrario muranese nel 1415 quando …ogni padrone di fornace ed ogni negoziante di vetri scelga un suo marchio e lo depositi presso l’ufficio della dogana…”.(39)
La prima testimonianza di una insegna vetraria, invece, è contenuta in un atto podestarile del 1424, citato da Luigi Zecchin: la fornace aveva come simbolo un pomum aureum.(40) Da questa data, da questo simbolo sarebbe iniziato il mio percorso. La prima fase del lavoro, quella di acquisizione dei nominativi, è stata molto facilitata dalla collaborazione di amici studiosi che non finirò mai di ringraziare. Ho trovato menzione di parecchi segni di vetrerie nei documenti visionati: talvolta, addirittura, essi si sostituivano ai cognomi delle famiglie proprietarie.(41) La seconda fase, come detto, consisteva nel trasformare quei nomi così affascinanti in immagini concrete: era un’impresa molto complessa per le mie possibilità conoscitive.
Se oggi, ad esempio, dovessimo rappresentare graficamente ed in modo chiaro a tutti le antiche insegne denominate La Fede tradita o La Pace trionfante, incontreremmo parecchie difficoltà, come se dovessimo parlare utilizzando una lingua morta, ormai completamente desueta. Se, invece, dovessimo rappresentare con pennelli e colori un concetto che a noi sembra familiare come La Libertà, ad esempio, prenderemmo probabilmente spunto dalla famosissima statua che si affaccia sulla baia di Manhattan; ancora, se dovessimo effigiare un Todesco, molti di noi userebbero la stereotipata raffigurazione del soldato prussiano della guerra franco- germanica del 1870-71 o del primo periodo della guerra 1914-18, calcante sul capo, con marziale alterigia, il famoso elmo con chiodo.

Il periodo storico preso in esame per la ricerca, che va dalla metà del XV fino alla fine del XVIII secolo, logicamente, non poteva avere ancora incontrato, assimilato, concepito queste immagini che sono ormai radicate in noi. Ovviamente, i commercianti veneziani del ‘500, o quelli contemporanei a Monteverdi oppure a Vivaldi, usavano, per rappresentare le allegorie e i soggetti presenti nelle insegne, un’iconografia figlia dei loro tempi, molto diversa da quella attuale, probabilmente più vasta e specifica. Desideravo comprendere il più possibile quel codice di simboli, cercando di rapportarlo al contesto specifico dell’isola di Murano al tempo della Repubblica Serenissima. Ai fini di una corretta sequenza degli elementi che mi avrebbero portato alle ricostruzioni congetturali dei simboli vetrari, ho elaborato, per prima cosa, un teorico identikit del “committente tipo” del segnal: un padrone vetraio attento a sposare, attraverso un’immagine, il pragmatismo del proprio commercio con il “lustro” conferitogli dalla sua condizione sociale. Il secondo “ritratto virtuale” era dedicato all’esecutore materiale del segno: un artigiano di buon livello, pronto a mettere le sue conoscenze di araldica e di iconologia, più o meno vaste, al servizio dei desideri del cliente. Il risultato di questo connubio doveva essere, tranne sporadici casi, un prodotto, l’insegna appunto, di non eccelso valore artistico e avente un simbolismo non troppo profondo o recondito. Un prodotto che aveva lo scopo di localizzare e connotare chiaramente l’azienda del committente, servendosi di un codice figurativo piuttosto semplice ed immediato, non appartenente allo specifico settore commerciale vetrario, ma condiviso con altri rami merceologici.

Ho compiuto un primo passo nella conoscenza pratica di questo codice figurativo quando ho potuto visionare alcuni documenti che testimoniavano con immagini una coeva esistenza, a Venezia, di altre insegne non appartenenti a vetrerie, ma aventi parecchie affinità con esse. Il codice Gradenigo presso la Biblioteca del Civico Museo Correr,(42) ad esempio, raccoglie disegni settecenteschi di antiche insegne farmaceutiche, alcune delle quali esistenti tuttora, i cui soggetti rappresentati sono, spesso, i medesimi di quelli scelti per le vetrerie di Murano.
Quindi, vi fu comunanza nominale, e a mio parere certamente grafica, tra i simboli delle spezierie e delle vetrerie dai nomi eguali quali: Al S. Marco, Al Leon d’Oro, Al Campanile, Alla Testa d’Oro, Al Castello, Alla Fenice, Alla Pigna, Al Gallo, Al Calice, Al Mondo…
Comunanza nominale e grafica, dicevo. Per quanto mi consta, infatti, escludendo le poche insegne aventi oggetti specifici connessi all’attività (che comunque quasi mai davano il nome alla bottega: le forbici per il sarto, l’incudine per il fabbro, il martello per il falegname…), non ho notato soggetti “alieni” ad un ramo commerciale che lo connotassero esclusivamente. Non ho riscontrato, cioè, l’esistenza di animali, figure o santi appartenenti unicamente ad un settore mercantile e non ad altri, anche quando il santo è il patrono di un’arte o di un ramo commerciale.
La scelta apparentemente inspiegabile di adottare simboli di bottega aventi caratteristiche di completa “estraneità” quando non addirittura di contrasto all’attività svolta, ha originato un articolo nel giornale londinese Spectator, datato 2 aprile 1710.(43) Dall’articolo in questione emerge l’auspicio di una maggiore coerenza da parte dei commercianti nella scelta dei soggetti delle insegne. Insegne che, secondo l’articolo, dovevano avere una diretta relazione con la merce prodotta e venduta o con l’attività svolta nell’esercizio. Dallo scritto traspare una pesante critica alla consuetudine di apporre, ad esempio, un leone davanti alla bottega di un sarto o un “porco arrostito…” sopra l’uscio di un calzolaio o ancora un caprone a soprastare una profumeria. Tale abitudine, da imputarsi in gran parte ad un probabile “riciclo” di insegne originariamente destinate a tutt’altri settori commerciali, doveva secondo il redattore, cessare ed essere adeguatamente regolamentata.
Questi, comunque, sono esempi estremi. Effettivamente il caprone scelto come simbolo di una profumeria sembra essere più una provocazione che una insegna. Al contrario, esistevano alcuni simboli “neutri” che in nessun modo potevano connotare esclusivamente, danneggiare o contrastare l’immagine ed il prestigio di una qualsiasi attività e che potevano venire assunti contemporaneamente ed in ugual misura da settori mercantili diversi, come abbiamo visto e come constateremo anche in seguito.

Torniamo al Codice Gradenigo del Museo Correr ed ai suoi disegni che non riproducono in maniera fedele le reali insegne delle spezierie ma offrono una visione “idealizzata” delle stesse. Non mi riferisco certo a differenze di stile o di forma, ma alla scelta dei soggetti rappresentanti i simboli che davano il nome agli esercizi e in quelle pagine riportati. Mi spiego: il S.Marco, presente in molte insegne commerciali, ha due principali possibilità di trasposizione grafica,(44) entrambe corrette ed ugualmente valide. Si può scegliere di rappresentare “umanamente” il Santo mentre scrive il suo vangelo e reca accanto il cosiddetto “attributo principale”(45)- il leone alato e nimbato - oppure si può optare di rappresentare l’Evangelista servendosi solo del suo simbolo, il classico leone abbrancante il Libro. L’insegna farmaceutica disegnata nel Codice Gradenigo ha scelto questa seconda maniera, tipicamente veneziana.
Nel Museo del ‘700 di Cà Rezzonico, tuttavia, la reale insegna della spezieria Al S. Marco è tuttora visibile, e in essa l’Evangelista è rappresentato nella sua forma completa, “umana”. Il leone è ai suoi piedi, in secondo piano. Una piccola differenza tra le due versioni, quindi.
Il Mondo dell’omonima farmacia è rappresentato nel Codice Gradenigo come un globo stellato attraversato da una fascia con tre segni zodiacali. Questa è una delle possibili “trasposizioni grafiche” di tale soggetto. Un’altra “opzione figurativa” per rappresentare il mondo, è quella costituita da una sfera attraversata da una fascia e cimata da una croce (il cosiddetto globo imperiale). E’ molto probabile che fosse questa seconda alternativa grafica, differente da quella scelta dal disegnatore del Codice, il simbolo esatto della famosa spezieria, come si può arguire osservando l’intestazione del Libro cassa del nobil collegio de signori speciali da medicine dell’anno 1784, dove è riprodotta l’insegna, il globo imperiale appunto, appartenente al priore in carica, Angelo Partevoli “…special al Mondo…”.(46)


Queste piccole discrepanze potevano essere causate da un mutamento iconografico dettato dall’evoluzione del costume (i nomi delle insegne, pur rimanendo inalterati, variavano con il trascorrere del tempo nella trasposizione dell’immagine). Ma una seconda alternativa potrebbe prevedere l’esistenza di “sinonimi grafici”: si potevano, cioè, usare indifferentemente simboli diversi per uno stesso soggetto. In ogni caso, i disegni visionati delle insegne farmaceutiche mi hanno dato maggiore convinzione nel voler serenamente affrontare la ricostruzione congetturale dei simboli delle vetrerie. Il criterio che avrei seguito sarebbe stato lo stesso delle immagini tratte dal Codice Gradenigo: una trasposizione grafica “idealizzata”. Avrei dovuto, però, rendere quanto più plausibile il mio lavoro argomentando le scelte pittoriche e supportandole con tutti i passaggi documentari di mia conoscenza. Sarebbe stato il lettore a decidere se fermarsi o seguirmi nel mio tragitto di ipotesi.

M
i sono state anche utili, in questo processo di “acquisizione comparativa” dei simboli, le marche degli antichi editori e tipografi italiani, per molta parte veneziani, ampiamente effigiate e documentate in ottimi repertori.(47)
Presso l’Archivio di Stato di Venezia ho potuto consultare altri registri aventi descrizioni verbali o riproduzioni grafiche di marchi e insegne di diverse attività, notando anche in essi parecchie analogie con i simboli delle fornaci che conoscevo solo nominalmente. Oltre ad alcuni marchi di fabbricanti di Conterie, illustrati in un fascicolo,(48) esiste un piccolo registro(49) nel fondo Giustizia Vecchia che, partendo dal 1560, abbraccia un periodo di circa un decennio e riporta alcune registrazioni di insegne appartenenti a varie attività lavorative e di corporazione(50)- tra esse non figura l’arte vetraria- allo scopo di regolamentarne l’uso: libreri e stampadori, spizieri (ancora!), zogelieri, vineri, marzeri, venditori de pelle e de camozza, eccetera. Non essendoci immagini, talvolta vi è stata l’esigenza, da parte dei redattori del documento, di descrivere verbalmente il segno registrato. Questa esigenza lasciava trasparire una non univoca equazione Soggetto A = Immagine A, ma diverse soluzioni di trasposizione grafica (perché illustrare a parole il simbolo, altrimenti?); ecco ritornare quindi la teoria dei “sinonimi grafici”, precedentemente formulata, secondo la quale al Soggetto A poteva corrispondere un’Immagine A oppure B o C. Nel contempo, “l’esigenza descrittiva” mi ha aiutato ad immaginare alcune allegorie divenute simboli di esercizi: “…disse voler levar per insegna della sua bottega de libraria et ancho per stampar, la pace in figura de dona con una cornucopia in mano de diversi frutti, sì depenta como intagliata, como a lui parerà”, oppure: …et disse voler levar per insegna della sua bottega la città de Milan co lettere sotto che dicon Milan, sì depenta como intagliata como a lui parerà”, o ancora: “disse voler levar per insegna della sua botega la pace in forma solita di donna con fior nella man sinistra et palma di olivo nella man destra sì depenta como intagliata et colorita come lui vorrà…” o …una et più collone”, o …tre stelle o più o meno…”.

Come già fece il sopracitato Giacomo Moro nel suo scritto, si può tentare ulteriormente di comprendere e ridelineare(51) alcune delle funzioni di tale registro, o di ipotetici altri della medesima natura, ai quali la Matricola dell’Arte de Caldereri di Venetia(52) sembra fare riferimento quando recita: …Ancora volemo, et ordenemo, che quelli, i qual lavora dell’Arte, over facci lavorar, sia tegnudi de appresentar el suo segno alla Camera della Giustizia Vecchia, e quello metta in lo suo lavorier, per cason, che sia cognossudo…”. Dunque, il simbolo sembra assumere un’importanza sempre maggiore: l’esclusività della insegna, come aveva auspicato Bartolo da Sassoferrato, veniva tutelata e regolamentata anche dagli articoli di alcune Mariegole delle Arti.
Depenta como intagliata, como a lui parerà…”: è una formula che si ritrova spesso nelle pagine del registro del fondo Giustizia Vecchia. A quanto sembra, nel periodo temporale considerato da esso, la tecnica artistica con la quale era eseguita l’insegna non era quasi mai delineata: scultura, intaglio, pittura. Di conseguenza, anche il materiale con cui poteva essere fabbricata il segnal non era generalmente specificato:(53) pietra, legno, metallo. Poiché, come detto, i segni non sono stati riprodotti con immagini nel registro, sembra si fosse lasciata ampia libertà nella scelta dello stile e della trasposizione grafica del “soggetto – simbolo” (l’unico elemento chiaramente definito, seppur a livello verbale). Spesso, anche il colore ed il numero di tali soggetti erano considerati elementi variabili: …et colorido como esso vorà, et sì un[o] como più…”.
L’apparente nebulosità nel delimitare il simbolo parrebbe voluta: paradossalmente, mancando il numero di stelle, corone o gigli e la specificazione del loro colore, si era allargato di molto il campo figurativo occupato dalle insegne e dai marchi registrati che risultavano, perciò, maggiormente tutelati nella loro esclusività.

Si può ragionevolmente dedurre che, in questa maniera, si fosse invalidato sul nascere il desiderio di possedere simboli anche solo vagamente somiglianti a quelli già registrati, perlomeno nelle imprese operanti nel medesimo settore manifatturiero o merceologico.(54) Mi spiego meglio: l’iscrizione, ad esempio, del simbolo di spezieria I due Conigli (con le eventualità che gli animali potessero essere anche uno, o tre o più, e di qualsiasi colore “como a lui parerà”) non permetteva, in pratica, l’esistenza di una ulteriore insegna farmaceutica Al Coniglio o Ai cinque Conigli d’Oro. Per questa ragione, molto probabilmente, l’eventuale registrazione di un nuovo negozio avente insegna simile ad una già catalogata precedentemente o l’acquisizione di un esercizio già avviato e del relativo signal, recavano accanto, nella maggior parte dei casi, la rinuncia in calce da parte del primo titolare ai diritti posseduti di proprietà esclusiva e settoriale dell’immagine. Tale rinuncia “liberava”l’insegna rendendola disponibile per un’altra bottega o per il subentrante proprietario dell’esercizio:“ …et renontiò, prometendo in quello [segno, ossia simbolo] non voler più haver da far”.
Non ho motivo di credere che le contemporanee insegne di fornaci avessero avuto un trattamento diverso. Il mancato ritrovamento di registri analoghi, riguardanti la tutela di marchi vetrari, oltre a dipendere da mie lacune- sempre probabili- poteva essere motivato dal fatto che la quasi totalità delle fornaci era, allora come oggi, concentrata in una limitata zona della già piccola Murano, il Rio dei vetrai:(55) secondo il mio parere, non era necessario registrare il proprio simbolo nel timore che qualcuno, anche in buona fede, potesse usarne uno di uguale o di simile causando confusione ed usurpando gli eventuali meriti acquisiti e ben rappresentati dal marchio. Vista la limitatezza della zona produttiva, infatti, sarebbe stato immediatamente individuato un torto subìto e fatti rispettare i diritti di precedenza relativi al possesso ed all’uso del simbolo imitato.

Una apparente discrepanza riscontrata rispetto alla casistica esposta precedentemente, è stata la simultanea presenza, in differenti insegne vetrarie, del medesimo soggetto avente, però, colori diversi. La Nave dei Bortolussi, ad esempio, nella metà del ‘500 era d’Oro per Vicenzo, mentre Paulo ed Alvise la dipinsero Nigra; anche il Leon delle due fornaci dei Saonetti era, nello stesso periodo, Bianco o Oro; un ulteriore citazione, cronologicamente posteriore agli esempi precedenti, riguarda la Colombina degli eredi Morelli che era Bianca o Argento (una curiosità: in araldica, il Bianco e l’Argento si intendono, tranne rari casi, come medesimo colore). Apparente discrepanza, dicevo: infatti, nella maggior parte dei casi le vetrerie aventi questa tipologia di insegne distinguibili tra loro solo cromaticamente, appartenevano a membri della stessa famiglia, come appurato nei casi precedenti. Se ne deduce che, quando veniva a mancare il titolare di una fornace, molto spesso il simbolo che dava il nome alla sua insegna vetraria veniva diviso tra gli eredi che lo contraddistinguevano unicamente per il colore.(56) I segni creati con questo criterio potevano essere così apposti alle vetrerie familiari vecchie e nuove, distribuendo teoricamente tra esse in parti uguali, i meriti, la tradizione e i vantaggi commerciali acquisiti dalla precedente buona gestione del caro estinto. Probabilmente, non solo l’insegna veniva “sezionata”: anche il “cason” sede della fornace poteva subire delle divisioni. Lo si può arguire leggendo le testimonianze di alcuni vetrai chiamati a testimoniare, nel 1601, in merito ad una lite tra Antonio de Zuanne MoroMarinetti ed Alvise Bigaglia.
Nel descrivere il luogo della baruffa, una fornace, essi asseriscono che le vetrerie “ai doi Mori d’oro” e “ai doi Mori d’arzento” sono “tute doi in un cason…”, “…in uno istesso locho…”.(57) Presumo, ribadendo di non voler certo dare valore assoluto alle mie ipotesi, che il criterio di assegnazione esclusiva dei simboli delle insegne sia stato successivamente modificato, divenendo più elastico, anche per i settori merceologici di competenza del registro tanto menzionato anteriormente. Non si spiega altrimenti la contemporanea esistenza nel XVIII secolo, di insegne di spezierie simili tra loro quali Al S. Marco e Alli due S. Marchi, Alle due sirene scarpigliate e Alle due sirene d’oro, Alle due colonne e Alla colonna e meza.

Esiste una gustosa tradizione riguardante quest’ultima insegna che sembra essere stata il risultato della decisione di un Magistrato molto sbrigativo: esistendo due spezierie Alle due colonne egli, per non confonderle, mandò “un Fante a tagliare in una di queste farmacie una colonna per metà, per cui ne vennero e sussistono ancora le due insegne: Due Colonne e Una Colonna e Mezza; la prima a San Canciano e la seconda in Campo S. Polo…”.(58)
Last, but no least, ho potuto esaminare e confrontare alcune immagini di marchi e insegne in uso a Cremona(59) dal XIV al XVII secolo e vi ho trovato simboli di attività manifatturiere e commerciali del tutto affini graficamente alle sunnominate coeve marche degli stampatori, alle insegne degli spizieri, a quelle dei fabbricanti di Conterie ed agli stemmi delle famiglie muranesi che conoscevo. La Fortuna (una donna sopra un globo con velo al vento) dei vetrai Mazzolà, presente nell’arma, è del tutto rassomigliante a quella del marchio appartenente al mercante lombardo del XVI sec. Jo. Franciscus de Calvis,(60) alle Fortune presenti nelle insegne veneziane del fabbricante di conterie Giacomo Bellaudjs,(61) dello spezier a S. Moisè ed a quella del tipografo Francesco Rampazzetto.(62) La Sirena della fornace muranese appartenuta all’omonima famiglia, coniata anche nello stemma, è simile a quella doppiamente caudata di Jo. Baptista de Serina (iscritto alla Matricola cremonese dei Fustaniari)(63) ed a quella del librer Giovanni Varisco con insegne di bottega a Roma e Venezia.(64) Anche i Miotti Dal Gesù, famosi fabbricatori di vetro lattimo, avevano una corrispondenza di simbolo con uno dei più grandi liutai italiani: quel Giuseppe Antonio Guarnieri (cremonese come Stradivari), più noto come Giuseppe del Gesù, a causa dell’acronimo IHS (Iesus Hominum Salvator) che lui poneva dopo il suo nome e che contraddistingueva le sue etichette di bottega. Lo stesso acronimo era usato, duecento anni prima, dal mercante Hieronimus della Turre, concittadino del Guarnieri, per contrassegnare la sua merce e dalla cinquecentesca tipografia romana di Giacomo Tornieri come marca ed insegna.(65)

Al Museo del Settecento Veneziano di Cà Rezzonico, come già detto, è esposta l’insegna della farmacia Al S. Marco, del tutto simile nella lavorazione, nello stile pittorico e nel materiale (metallo), a quella della contemporanea vetreria La Pace(66) custodita nel Museo Vetrario, tanto da farmi ritenere che entrambe fossero opera della stessa bottega artigiana. La concomitanza di tutti questi fattori mi ha persuaso, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che il “codice figurativo” dei soggetti rappresentati nelle insegne e nei marchi era sostanzialmente comune per gran parte delle attività produttive o commerciali. Ero convinto di aver trovato tante piccole, personali Steli di Rosetta(67) (mi sia concesso un pizzico di megalomania…), che avrei potuto integrare, al bisogno, con i classici trattati di iconologia.(68)
Il fatto che alcuni simboli vetrari si diversificassero tra loro, come detto, solo per il colore del soggetto principale, mi ha spinto a voler dipingere completamente le ricostruzioni congetturali che ho elaborato, pur disponendo di incomplete indicazioni cromatiche. Ho rappresentato tali ricostruzioni sotto la forma fisica di insegna: infatti, la concentrazione di molte “vetrerie – negozi” (botegha vitraria viene definito in un atto notarile il settore destinato alla vendita dei manufatti vitrei prodotti dalla annessa fornace)(69) in una piccola zona di territorio mi ha spinto a supporre che ogni fornace si distinguesse tangibilmente dalle altre anche grazie a segnali ben visibili.

.......Quindi, per dare un metodo al mio lavoro, quando un documento recitava: “…verier al segno de S. Nicolò…”, esso veniva da me tradotto in:“ vetraio all’insegna di S. Nicolò…”, pur essendoci la possibilità, a mio avviso molto remota, che per segno si potesse intendere solamente il marchio di fabbrica(70) e non anche l’insegna. Un piccolo arbitrio che apportava al mio lavoro un vantaggio: le insegne reali, essendo situate all’esterno e quindi in balìa delle intemperie, dovevano essere soggette a frequenti dipinture e rifacimenti, probabilmente non sempre rispettosi in maniera rigida della forma o dei colori originari appartenenti agli elementi secondari delle stesse. Il segnal La Croce d’Oro dei Bigaglia, ad esempio, nella sua lunga storia può avere avuto forma ovale o tonda, un “campo” rosso o blu, oppure non averlo avuto affatto; era il colore del metallo appartenente al simbolo che lo contraddistingueva e che doveva rimanere sempre inalterato per differenziare la relativa vetreria dalla coeva fornace avente l’insegna La Croce d’Argento. Le ricostruzioni da me elaborate, quindi, non rappresentano i segnali come effettivamente furono ma come, plausibilmente, potevano essere.

Con l’acquisizione di nuovi dati e di inedite informazioni, la motivazione che mi aveva fatto deviare il primitivo corso delle ricerche (dagli stemmi muranesi ai simboli delle vetrerie, considerati all’inizio quasi un “ripiego”), ha lasciato il posto ad un reale interessamento verso questo nuovo mondo così affascinante. Interessamento che ho allargato con entusiasmo crescente alla totalità dei nuovi soggetti acquisiti e che comprendeva anche quelle immagini simboliche che palesemente non sembravano mai essere state o divenute armi familiari. Tengo a precisare che la data segnalata nelle schede cronologiche come quella in cui tale fornace appartiene a tale famiglia, è puramente indicativa, una sorta di flash: l’insegna vetraria può essere appartenuta alla famiglia citata anche prima o dopo l’epoca da me specificata nel testo, che è quella segnalata, magari incidentalmente, nei documenti d’archivio e nei testi da me visionati. Altresì, la fornace può essere appartenuta in forma continuativa e per un lungo lasso di tempo ad una famiglia pur conoscendo dei fugaci periodi di interregno (può avere avuto, cioè, proprietari o soci di altre casate per qualche tempo). Periodi di interregno da me non segnalati perché, magari, testimoniati solo da quel foglietto sbiadito dentro quella busta sperduta di quel fondo d’archivio dimenticato in quello scaffale nascosto… di cui mai avrei immaginato l’esistenza. Mi dolgo di queste lacune e me ne scuso sin d’ora.

Non so esattamente cosa mi abbia spinto a compiere questo lavoro. Forse mi sembrava giusto condividere con altre persone le immagini richiamate alla mia mente da quei nomi così affascinanti e carichi di significato, di memoria.
In un’epoca, la nostra, dove l’immagine ha una valenza effimera, dove la moda, il look durano lo spazio di una stagione, desideravo tornare al tempo in cui un simbolo si confondeva con il soggetto a cui apparteneva, diventando un tutt’uno, per sempre. Il tempo in cui Federico Bigaglia era il Kavalier Fedrigo Allo Spirito Santo anche negli atti notarili; il tempo in cui i Morelli erano per tutti quelli De la Colombina.
E’ una cosa troppo artistica per essere scientifica e troppo scientifica per essere artistica”.
Così ha sentenziato un amico dopo aver visto in anteprima questa ricerca. Certo, potrebbe avere ragione, ma chi ha detto che le cose, per essere piacevoli, debbano avere sempre un solo sapore?



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Note


(1) Brano tratto da: Lorenzo Lotto, Il “Libro di spese diverse” con aggiunta di lettere e d’altri documenti, a cura di Pietro Zampetti, Istituto per la collaborazione culturale Venezia - Roma, Civiltà veneziana fonti e testi, IX, Serie Prima, 6, 1969, p.192. Zuan Domenego Serena, vetraio muranese Alle 3 croci, diede incarico nel 1546 al Lotto di eseguire un quadro e, due anni dopo, ebbe con il pittore un litigio: “...et havuto/ el quadro, me levò garbino e dissemi de molta vilania e volsemi dar le bote e non pagarmi altramente…”. Ho voluto inserire questo piccolo brano per indicare, anche in appunti veloci come questo, la grande importanza assunta nel passato dall’insegna di bottega, usata come principale ausilio di identificazione del proprietario.

(2) Nel primo libro, ho dedicato una piccola appendice anche agli stemmi scolpiti su pietra e presenti nei palazzi che si affacciano sul Rio dei Vetrai. Per maggiori approfondimenti inerenti il tema “Medaglie muranesi”, rimando a: Vincenzo Zanetti, Delle medaglie di Murano denominate Oselle, Venezia, Tip. Municip. di Gaetano Longo, 1881.

(3) Per chi volesse saperne di più, per tutto ciò che concerne l’istituzione e l’evoluzione del Libro d’Oro di Murano, rinvio a: Il Libro d’Oro di Murano, edito per cura di Vincenzo Zanetti, Venezia, stab. tipo-litografico M. Fontana, 1883. Quest’opera venne ristampata anastaticamente dalla Società Cooperativa Muranese Mista nel 2001. Altre notizie in: Luigi Zecchin, Vetro e vetrai di Murano, Venezia, Arsenale editrice, 1987, vol. I, pp. 217 – 221.

(4) La relazione in questione si intitola: Nomadismo del vetraio, tenuta dal compianto Silvano nel 1987 ad Altare, altro famoso centro vetrario italiano.

(5) Tra gli altri: Conte Piero Guelfi Camajani, La nobiltà del Consiglio di Murano dopo la sua serrata, Firenze, Ufficio di consulenza araldica, 1936; Paolo Zecchin, Un presunto privilegio dei vetrai muranesi, in "Studi Veneziani", N.S. LI (2006), Pisa - Roma, Fabrizio Serra - Editore, MMVII, pp. 353-374. In quest'ultimo lavoro lo Zecchin, esponendo le sue ricerche sul presunto (appunto!), esclusivo privilegio appartenuto alle figlie dei vetrai muranesi di poter sposare un Nobilhomo veneziano trasmettendo agli eredi la nobiltà paterna, tratta da par suo l'argomento "nobiltà dei vetrai", sfrondandolo di ogni secolare inesattezza tramandataci in buona o cattiva fede.

(6) Vincenzo Zanetti, Guida di Murano e delle celebri sue fornaci vetrarie, Venezia, Stabilimento Tipografico Antonelli, 1866; Correzioni Rettifiche e Giunte alla Guida di Murano…, Venezia, tipografia municipale di Gaetano Longo, 1880 (ristampa anastatica, Sala Bolognese, A. Forni Editore, premesse di Ugo Stefanutti e Mario De Biasi, 1984), p.67.

(7) Archivio di Stato di Venezia (d’ora in poi denominato A.S.V.), Notarili Atti, b. 15228.

(8) Idem.

(9) A tale proposito rimando alla lettura di alcuni brani di cronaca seicentesca muranese riportati da Silvano Tagliapietra nel suo: Storia di sei famiglie muranesi (1) I Toso, Venezia, Tip. Helvetia, p.14 ed al piacevolissimo libro dello stesso autore, I Muranesi nel Settecento, Spinea (Ve), Edizioni Helvetia (Parentesigrafa), 2002; da queste pagine traspare un uso del coltello da parte degli isolani eccessivamente facile, anche in piccole beghe.

(10) I Cancellieri muranesi notificarono pubbliche paci tra cittadini muranesi in gran numero, come riscontrabile dai vari Atti e Prottocoli di Instrumenti presenti in Archivio di Stato.

(11) Berretto, cappello. La baretta viene citata più volte nel rapportocome emblema di riconoscimento del fante.

(12) A.S.V., Censori, b. 20.

(13) Giacomo Casanova, Histoire de ma vie, traduzione italiana Storia della mia vita, a cura di Piero Chiara e Federico Roncoroni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1983, vol. I, p.1028.

(14) Per facilitare il lettore, desidero comunicare che quando il testo parla di Insegna (visto che il termine racchiude in sé anche altri significati  tra cui quelli di stemma, motto o contrassegno onorifico), intende riferirsi all’emblema, al simbolo che si appone come riconoscimento sul negozio o nel luogo dove si esercita un’arte, un commercio, un’impresa.

(15) Il viceversa manifesta una mia lacuna: non ho stabilito, infatti, quale, tra arma ed insegna della vetreria, fosse stata la causa e quale l’effetto e se tale ordine di fattori fosse stato sempre rispettato. A tutt’oggi , quindi, non sono in grado di stabilire se fu lo stemma a generare il simbolo della vetreria o se fosse il signal diretta matrice dell’arma familiare. Lascio aperta ogni teoria ricordando, nel caso di consuetudini simili in altre città o stati, la specificità delle questioni inerenti Murano e la sua arte più rappresentativa.

(16) Eberhard Hölscher, Firmenschilder aus zwei Jahrtausenden Malerei im Dienste der Werbung, München, F. Bruckmann, 1965, p.10. In primo luogo, voglio ulteriormente ringraziare Gabriele Mazzucco che mi ha permesso la visione di questo scritto, riccamente illustrato. Sarebbe stato per me ancora più bello se, come si arguisce dal titolo, non fosse stato scritto in tedesco. Vorrei poter dire di conoscere a menadito la parlata teutonica, ma biascico a malapena qualche parola. Quindi, ecco partire il secondo ringraziamento che arriva alla “principessa” Susy Romanovsky che mi ha aiutato (molto) nella traduzione e nella comprensione del testo.

(17) Dimitri Meeks, Christine Favard – Meeks, La vie quotidienne des dieux égyptiens, Hachette, 1993; traduzione italiana di Maria Grazia Meriggi, La vita quotidiana degli Egizi e dei loro Dei, Milano, R.C.S. Libri S.p.A., (La vita Quotidiana) 1998, p.226.

(18) Arturo Lancellotti, Storia aneddotica della réclame, Milano, Dott. Riccardo Quintieri Editore, 1912, p. 34.

(19) Eberhard Hölscher, Firmenschilder…, op. cit., p.13.

(20) Wolfgang Lauter, Schöne Laden – und Wirtshausschilder, Dortmund, Harenberg Kommunikation, 1980; versione italiana con traduzione di Giorgio Bolognini dal titolo Insegne pittoresche, Legnano (Mi), Gruppo editoriale EdiCart, 1990, p.126.

(21) Arturo Lancellotti, Storia aneddotica della réclame…,op. cit. ill. II.

(22) Bartoli à Saxoferrato, Omnium Iuris Interpretum antesignani, Consilia, Quaestiones, et Tractatus, Tomus decimus, Tractatus de insigniis et armis,Venetiis, MDCII, p.125. Bartolo da Sassoferrato (Sassoferrato, Urbino 1314- Perugia 1357), fu giurista di altissimo livello ed uno dei maggiori esponenti della scuola dei Commentatori. Egli studiò diritto nella Università di Bologna, dove fu allievo del famoso Cino da Pistoia. Avvocato, insegnò diritto a Pisa e a Perugia. Molto conosciute furono le sue teorie riguardanti l’autonomia dei Comuni rispetto all’Impero. I suoi casi, i suoi commenti e le sue soluzioni servirono come modelli per i giudici di tutta Europa.

(23) L’opera in questione, scritta nella prima metà del ‘500, si intitola Viaje de Turquìa. Giacomo Moro ne cita un breve passo nel suo: “Insegne librarie e marche tipografiche in un registro veneziano del ‘500”, in La Bibliofilia Rivista di storia del libro e di bibliografia diretta da Luigi Balsamo, Firenze, Leo Olschki editore, anno XCI n. 1, 1989, p.51. Il Moro lascia aperta la questione inerente la paternità di questo antico testo.

(24) Ho interpretato così il Pedro en la Corte del testo spagnolo. Ho preferito tradurre personalmente le poche righe dell’antico brano menzionate, anche se il Moro segnala e riporta parte di una versione italiana a cui rimando (traendola dalle note del suo scritto) coloro che volessero approfondire la conoscenza di questo testo: A. Laguna, Avventure di uno schiavo dei turchi, a cura di C, Acutis Milano, Il Saggiatore 1983 («Terre/Idee», 5).

(25) Giuseppe Tassini, Curiosità Veneziane, I edizione, Venezia, Tip. di Gio. Cecchini, 1863 (ristampa, Filippi Editore, Venezia, 2001), p. 338.

(26) La consuetudine di contraddistinguere locande con ghirlande di foglie sembra addirittura risalire ad una ordinanza di Carlo Magno alle amministrazioni territoriali, come testimoniato da Wolfgang Lauter, Schöne Laden – und Wirtshausschilder…, op. cit., p.128.

(27) Il brano è tratto da un’opera in cinque parti, tutte dello stesso autore, ristampate anastaticamente in un unico volume: Girolamo Dian, Cenni Storici sulla Farmacia Veneta, al tempo della Repubblica, Parte quinta, Venezia, Tipografia Orfanotrofio, 1905 (ristampa anastatica, Venezia, Filippi Editore, 1983), p.166.

(28) Eberhard Hölscher , Firmenschilder aus zwei Jahrtausenden…, op. cit.,p.56. L’ordinanza in questione è del 16 settembre 1793. Lo Hölscher ascrive a Fouché il ruolo di autore del decreto quale Ministro della Polizia, funzione che il camaleontico personaggio ricoprirà a partire dal luglio 1799. Probabilmente, Fouché fu autore della Ordinanza con altra carica rispetto a quella attribuitagli dallo Hölscher.

(29) L’insegna ha una parte frontale ed una posteriore. La faccia eseguita da Hans, si intitola “La lezione degli adulti” (l’altra, “La lezione dei bambini” è comunemente attribuita al fratello Ambrosius). Una riproduzione dell’opera di Holbein è ben visibile, tra gli altri, in: Storia della pittura, dal IV al XX secolo, vol. VI Il cinquecento europeo, testo di Roberto Salvini e saggio di Rosalia Bonito Fanelli, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1985, pag. 177.

(30) Esiste una riproduzione dell’insegna citata, corredata di una descrizione completa e di utili didascalie, in: “L’Opera completa di William Hogarth pittore”, presentazione di Gabriele Baldini con apparati critici e filologici di Gabriele Mandel da Classici dell’Arte, Milano, Rizzoli Editore,1967, vol.15, pp. 86 e 87.

(31)  E’ visibile una riproduzione fotografica e una cronistoria dell’opera in questione, in un fascicolo dal titolo: “Watteau” con testi di Ennery Taramelli, dalla collana I classici della pittura, Roma, Armando Curcio Editore, 1980, vol.25, tav.21.

(32) Girolamo Dian, Cenni Storici sulla Farmacia Veneta…, op. cit.,p.160.

(33) I due pannelli in questione, dapprima smembrati e successivamente assemblati sono visibili presso il Musée d’Orsay, a Parigi.

(34) Luigi Zecchin (a cura di), Il Capitolare dell’Arte Vetraria Muranese del 1766, Venezia, Camera di Commercio Industria e agricoltura di Venezia, Arti Grafiche Sorteni S.P.A., 1954, p. 104.

(35) Cfr. Luigi Zecchin, Vetro e vetrai di Murano, Venezia, Arsenale editrice, 1989, vol. II, p.35.

(36) Probabilmente, la questione non si pone ad un esperto araldista, poiché, negli stemmi e nelle insegne, la metodologia di raffigurazione di molti soggetti allegorici è, sostanzialmente, la medesima.

(37) Le insegne in questione sono: Alle tre corone (che nella sua monografia- Il Museo Civico Vetrario di Murano, Tip. Munic. di Gaetano Longo, Venezia, 1881- l’abate Zanetti fa risalire al secolo XV) e quella Alla sirena della famiglia Mestre che io ritengo cronologicamente posteriore (entrambe sono scolpite); le altre due, probabilmente settecentesche, sono: La Pace (mia attribuzione) e Alla fontana d’Oro. Le due ultime insegne sono entrambe in metallo dipinto e quasi completamente illeggibili a causa del deterioramento dei colori. Ho potuto vedere anche dei piccoli pani di vetro aventi impresso a caldo il marchio stilizzato di alcune fornaci. A tale proposito, desidero ulteriormente ringraziare Vladimiro Rusca, responsabile ed operante all’interno del Museo Vetrario, che mi ha aiutato, sempre gentilmente e con sollecitudine, nel reperimento di documenti e nella loro consultazione.

(38) Sfido chiunque volesse raccontare e pubblicare qualcosa sul vetro muranese a non citare nel suo lavoro, nemmeno per una volta, Luigi Zecchin. In: Luigi Zecchin, Vetro e vetrai…, vol. I, op. cit., pp. 186, 187, 190, 197 sono riprodotti alcuni dei pani di smalto marchiati ed alcune xilografie dei simboli vetrari cui accennavo nel testo. Un altro valido supporto documentario è l’articolo di R. J. Charleston, “Glass ´cakes` as raw material and articles of commerce”, da Journal of Glass Studies, 1963, pp. 54 e segg.

(39) Luigi Zecchin, Vetro e vetrai…, vol I, op. cit., p.40.

(40) Luigi Zecchin, Vetro e vetrai…, vol I, op. cit., p. 42.

(41) La sostituzione del cognome con l’insegna non era una peculiarità esclusiva delle famiglie vetrarie: come ci segnala il già incontrato Giacomo Moro (autore di: Insegne librarie e marche tipografiche…, op. cit., p.54), tale pratica era comune anche in altri settori lavorativi: Andrea Arrivabene, libraio all’insegna del Pozzo era spesso citato nei documenti come “Andrea Dal Pozzo”. Moro cita anche l’esempio di Domenico Splendor, anch’egli libraio, detto “della Madonna” per analogo motivo. Anche Giuseppe Tassini nel suo Cittadini Veneziani, (A.S.V., Miscellanea codici, prima serie, Storia Veneta) ci testimonia che tale pratica era comune non solo a Murano. Così scrive nel capitolo dedicato ai Dalla Pigna: “…sembra che questa famiglia si cognominasse veramente Rosi e che si dicesse Dalla Pigna pel suo negozio di droghe all’insegna della Pigna...”.

(42) Biblioteca del Civico Museo Correr di Venezia (d’ora in poi denominata BMCVe), “Insegne di botteghe Medicinali in Venezia”, Codice Gradenigo, n.200, vol. IV, cc.292 e seg.. Di queste insegne disegnate sono visibili anche riproduzioni su lastra presso l’Archivio Fotografico del Museo.

(43) Eberhard Hölscher, Firmenschilder aus zwei Jahrtausenden… op. cit., p.85.

(44) “Quanto alle loro fattezze, ognuno dei quattro aveva fattezze d’uomo; poi fattezze di leone a destra, fattezze di toro a sinistra e, ognuno dei quattro, fattezze d’aquila” (Ezechiele 1,10). “Davanti al trono vi era come un mare trasparente simile al cristallo. In mezzo al trono e intorno al trono vi erano quattro esseri viventi pieni d’occhi davanti e di dietro. Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l’aspetto di un vitello, il terzo vivente, aveva l’aspetto d’uomo, il quarto vivente era simile ad un’aquila mentre vola”(Apocalisse di Giovanni 4,.6-7). Questi passi tratti dalla Bibbia sono i documenti basilari, le fondamenta su cui poggia l’iconografia dei quattro Evangelisti. In base ad essa, S. Marco viene simboleggiato dal leone, S. Giovanni dall’aquila, S. Matteo dall’uomo e S. Luca dal vitello – toro.

(45) Gigi Cappa Bava e Stefano Jacomuzzi, Del come riconoscere i santi, Torino, Società Editrice Internazionale, 1989, p.86.

(46) A. S. V., Arti, Spezieri, b.705. Lo stesso globo imperiale è assunto probabilmente dai Marceretto per la loro insegna vetraria Al Mondo, come deducibile dal loro stemma.Ancora, esso appare in una illustrazione del Grevembroch, dipinto in una vela di una imbarcazione. Sotto il globo cimato dalla croce, la dicitura Al Mondo, probabile nome della grande barca. Giovanni Grevembroch, Gli abiti de veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel secolo XVIII, riproduzione dei quattro volumi ad opera di Filippi Editore Venezia con la introduzione di Giovanni Mariacher, 1981, vol. IV, illustrazione della didascalia 127.

(47) Tra gli altri: Emerenziana Vaccaro, Le marche dei tipografi ed editori italiani del secolo XVI nella Biblioteca Angelica di Roma, Firenze, Leo S. Olschki Editore (Biblioteca di bibliografia italiana IIC), 1983; Giuseppina Zappella, Le marche dei tipografi e degli editori italiani del Cinquecento, Milano, Editrice bibliografica, 1986.

(48) A.S.V., Censori, b. 47. Esistono delle riproduzioni di questi marchi, coincidenti in massima parte con l’insegna, anche presso l’Archivio fotografico del Civico Museo Correr, Venezia.

(49) A.S.V., Giustizia vecchia, b. 49, registro 79.

(50) Il registro riporta anche le registrazioni di marche tipografiche, di licenze per l’uso dell’arte del chirurgo, di monogrammi di pellicciai, ecc.

(51) Nel già citato scritto di Giacomo Moro alcune ipotesi, da me solo parzialmente rielaborate, sono affrontate con maggiore perizia ed argomentazioni validissime. Il Moro intraprende il suo percorso relativamente al settore librario.

(52) BMCVe, Mariegola dei Caldereri, MS. 172.

(53) Naturalmente non mancano rare eccezioni nelle quali il materiale viene specificato: Missier Antonio Cornoni, spizier, aveva “…il signal in laton de le due sirene picole…”.

(54) Parlo di settore perché coesistevano insegne dal soggetto uguale appartenenti ad attività diverse. Il registro testimonia che l’insegna Al Tedesco, ad esempio, era posseduta nei primi anni del 1560 da uno spezier, da un viner, da un marzer, ecc..

(55) Tale affermazione trova un tangibile riscontro in un lavoro del sempre cortese Paolo Zecchin scritto per la “Rivista della Stazione Sperimentale del vetro”, n.6 del 2001, pag.191 e seguenti, dal titolo: L’arte vetraria a Murano nella seconda metà del Seicento. Parte seconda, egli riproduce una veduta dell’antica Murano, localizzando le fornaci seicentesche ed indicandole al lettore.

(56) Dalla consultazione di documenti, si deduce che, successivamente, le insegne potevano essere cedute assieme alla vetreria, anche a persone non appartenenti alla medesima famiglia, regola vigente pure per altre attività commerciali. La fabbrica poteva continuare ad esistere con il medesimo nome sotto altra gestione, quindi, come accade oggigiorno. La misteriosa insegna Mestre alla Sirena che si trova al Museo Vetrario di Murano, ne è una prova tangibile, secondo il mio parere. Altri probabili dimostrazioni:la vetreria Alle due corone d’Oro, appartenuta ai Paelato e successivamente acquisita dai Bigaglia (Cfr. Vincenzo Zanetti, La Famiglia Bigaglia e i principali suoi rami, Venezia, Tip. Antonelli Editrice, 1865, p.46) e La Colombina d’Argento, ceduta nel 1665 dai Morelli a Gasparo Zuffo.

(57) A.S.V., Podestà di Murano, busta 121. Devo questa segnalazione alla gentilezza di Silvano Tagliapietra che ha condiviso con me alcuni suoi appunti. Solo in base a questi, ho cercato con determinazione nel documento citato le tracce di questo alterco (redatto in una calligrafia altrimenti sconsigliante la lettura).

(58) Girolamo Dian, Cenni Storici sulla Farmacia Veneta, op. cit., p.166.

(59) La Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Cremona ha promosso la pubblicazione del volume, invero molto bello, a cura di Carla Sabbioneta Almansi: Marchi di fabbrica ed insegne a Cremona fra i secoli XIV e XVII, Cremona, Dott. A. Giuffrè Editore,1982, del quale la curatrice, che ringrazio ulteriormente, mi ha cortesemente fatto avere una copia.

(60) Carla Sabbioneta Almansi, (a cura di), Marchi di fabbrica ed insegne a Cremona…, op cit., p.32.

(61) A.S.V., Censori, b. 47.

(62) Emerenziana Vaccaro, Le marche dei tipografi ed editori italiani…, op. cit., p.325, ill.438.

(63) Carla Sabbioneta Almansi, (a cura di), Marchi di fabbrica ed insegne a Cremona…, op. cit., p. 149.

(64) Emerenziana Vaccaro, Le marche dei tipografi ed editori italiani…, op. cit., p. 364, ill.502.

(65) Emerenziana Vaccaro, Le marche dei tipografi ed editori italiani…, op. cit., p.204, ill. 235

(66) Come detto, il nome La Pace è una mia attribuzione.

(67) Come molti sapranno, la Stele di Rosetta fu scoperta nel 1799 dall’ufficiale del corpo di spedizione francese Bouchard, durante la campagna d’Egitto di Napoleone. E’ una pietra ricoperta di iscrizioni, recante il medesimo testo di un decreto del 196 a. C., redatto in tre lingue antiche: il greco, il demotico ed il geroglifico. Questa peculiarità permise più tardi agli egittologi, Champollion tra tutti, la comprensione di una scrittura, il geroglifico, fino ad allora impenetrabile.

(68) Tra gli altri, menziono Cesare Ripa, Nova Iconologia, in Padova, per Pietro Paolo Tozzi, Nella stampa del Pasquati, 1618, Iconologia, edizione pratica a cura di Piero Buscaroli con prefazione di Mario Praz,2 volumi, Torino, Fògola Editore, 1986, IV edizione, 1991, (La Torre d’avorio).

(69) A.S.V., Notarili Atti, b. 15225.

(70) Questa possibilità è presente in settori commerciali diversi tra cui, raramente, quello librario.